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L’incubo di Hill House: Jackson, penna dell’orrore

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Da alcuni anni è tornata alla ribalta del mercato letterario. Il merito, si dirà, è anche della Adelphi e del suo straordinario lavoro di import culturale. Ma non prendiamoci in giro: Shirley Jackson è stata una scrittrice straordinaria, e L’incubo di Hill House, edito in Italia sin dagli anni ’70, è un racconto che doveva essere ristampato.

Il quinto lavoro della romanziera originaria di San Francisco ci porta anni luce lontano dalla Bay Area. E’ la storia di Eleanor Vance, 32enne che, da segregata in casa della sorella, coglie al volo l’invito del professor Montague a Hill House per una “caccia agli spettri”. E’ l’inizio dell’avventura assieme ad un gruppo eterogeneo di convitati: l’ereditiero Luke, la bohemien Theodora e, in un secondo momento, miss Montague e Arthur, dirigente scolastico. La magione è avvolta da misteri e indicibili drammi familiari e, forse, è imbevuta di poltergeist e fantasmi.

Shirley Jackson

La Jackson, che ispirerà scrittori del calibro di Stephen King, prende a piene mani dall’armamentario gotico. Porte che si aprono da sole, rumori molesti, strani microclimi e quant’altro figurano in Hill House. Ma a colpire è altro. Intanto, la scrittrice dà scarsissimi riferimenti spazio-temporali della casa “maledetta”. In questo modo, il racconto devia immediatamente dalla deriva diaristica e si concentra, invece, sulle impressioni.

In secondo luogo, va notato come la casa sia stata pensata, sin dall’inizio, come un vero personaggio. Un character inanimato – ma non per molto – che trova in Eleanor il perfetto reagente chimico per emergere. La dinamica è speculare: Eleanor, segnata dalle esperienze del suo passato e particolarmente sensibile a quelle del presente, viene fuori anche grazie a Hill House. Il processo è quello della progressiva resa, del graduale abbandono alla vita propria dell’ambiente in cui si trova.

Julie Harris interpreta Eleanor Vance ne Gli invasati (Robert Wise, 1963), geniale trasposizione del romanzo di Shirley Jackson

La tecnica della Jackson, a tratti, ha del memorabile. Caratteristica dell’autrice è il ricorso a varie forme di ellissi, dalla carente descrizione dei personaggi al capitolo – strepitoso – del libro delle Rimembranze di Hugh Crain, primo proprietario di Hill House. Un tomo raccapricciante infarcito di illustrazioni a sostegno dei precetti imposti alla figlia Sophie. In pratica, assistiamo alla lettura senza che una sola immagine venga descritta. La Jackson evoca l’orrore proponendoci le reazioni da parte del gruppo. Una scelta raffinata, che ha il potere di proiettarci direttamente lì, nel salotto della casa, come se fossimo un ulteriore spettatore in loco.

Anche lo sviluppo della storia procede tramite tutta una serie di omissioni – veri e voluti buchi temporali – che disgregano ancora di più l’unità d’azione. Il risultato è un ambiente che prende il sopravvento sul raziocinio e sulla determinazione dei personaggi. La realtà si complica di elementi che non sono meno reali di quelli “oggettivi”. Ciò che vediamo – e viviamo – è il perturbante connubio fra la superficie delle cose e ciò che sta sotto, covato, naufragato, ma mai dimenticato.

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