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“Yakuza apocalypse”, ovvero la meraviglia del caos

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Dietro Yakuza apocalypse (2015) c’è la mente geniale di Takashi Miike. E scusate se è poco. Ma per entrare nel meraviglioso mondo del caos, bisogna lasciarsi alle spalle un treno merci di pregiudizi.

Ma sto ragionando in termini inesatti. Apocalisse e caos sono sinonimi solo nell’uso comune. In realtà, il primo vocabolo significa “rivelazione”, non “disordine”. E in effetti quello di Miike è un cinema della rivelazione, innanzitutto per l’autore, il cui dichiarato intento è di «portare la vita nel cinema». A proposito di rivelazioni, il consiglio è di gustarvi Yakuza apocalypse nella succulenta versione blu-ray recententemente edita da Midnight Factory e Koch Media. Al suo interno è possibile trovare, oltre la classica scheda cartacea, anche un “making of” di oltre un’ora.

Vabeh, ma di che stiamo parlando? Di uno yakuza movie? Di un film di genere catastrofico? Il pamphlet si avventura in una definizione abbastanza generica: noir-horror. Ma la verità è che dentro questa folle storia di vampiri mafiosi si trova di tutto: dal comico al melodramma, dall’action di arti marziali al monster movie. Dal thriller allo spaghetti western. Tutto tenuto insieme dalla sapiente opera di creazione e disfacimento del grande Miike.

L’occhio che uccide

Se l’apocalisse è da intendersi come rivelazione di un nuovo significato, il maestro giapponese connette senza soluzione di continuità il processo di creazione a quello di distruzione. E come? Generando aspettative nel pubblico che vengono sistematicamente ribaltate, sia a livello d’intreccio che di codice narrativo. Diciamo che Miike non vuole molto bene al pubblico. Ma, nonostante ciò, lo ama profondamente.

L’intento creatore-distruttore è chiaro sin dalle prime sequenze. Uno spietato boss yakuza abbatte a colpi di katana i suoi nemici, ma al termine della lotta, riporta ferite mortali. Per continuare a vivere, succhia il sangue ad una delle sue donne. Il boss, dunque, è un vampiro. Ma subito dopo questo incipit viene capovolto: la prima sequenza era un sogno del suo braccio destro, che si era addormentato nella sauna. Ecco che però il twist, che cita Brian De Palma (Femme fatale, 2002) viene a sua volta ribaltato da ciò che accade di lì a poco. Il boss viene attaccato da una fronda della sua cosca. Viene elettrificato e fatto a pezzi. Ma invece di morire, vampirizza il suo braccio destro, rimasto in fin di vita per salvarlo.

Kageyama, il vampiro yakuza

Da qui in avanti la narrazione, dopo una serie di testacoda, tornerà a procedere in modo lineare. Ovviamente, se si parla di Miike, questa parola va ri-tarata. Cosa accade nel frattempo? Apprendiamo che il boss vampiro, per sopravvivere, beveva sangue di “civile”, il più nutriente. Per farlo, senza compiere stragi, il capo clan educava vecchi yakuza con corsi di bon ton e cucito. Al termine del percorso, il loro sangue civilizzato poteva essere bevuto. Insomma, un vampiro educato alla convivenza. Ricorda un po’ i personaggi di Solo gli amanti sopravvivono (Jim Jarmusch, 2013).

Ma ora è arrivato il tempo di Akira Kageyama. Il braccio destro che vuole vendicarsi. A differenza del suo maestro, Kageyama non riesce a controllarsi e finisce per vampirizzare tutta la cittadina. Ecco quindi il corto circuito geniale. Le persone morse diventano vampiri yakuza. Si comportano quindi da mostri, ma anche da scagnozzi. Da qui nasce un meraviglioso mondo, in cui chiunque, pur continuando ad essere sé stesso, deve anche nutrirsi e atteggiarsi a sbruffone. Et voilà. La yakuza apocalypse è servita. Violenza, vendetta e risate si incollano ad un evidente sottotesto sociale (i civili scoprono la propria forza e si ribellano alla yakuza).

Il “quarto stato” secondo Takashi Miike

John Carpenter (Grosso guaio a Chinatown, 1986) non è più soltanto un riferimento, ma la via maestra. Divertimento demenziale e impegno sociale diventano indistricabili. I capovolgimenti si susseguono vertiginosamente, a livello di soggetto (come in Dal tramonto all’alba, Robert Rodriguez, 1996) e di cornice narrativa (Assassini nati, Oliver Stone, 1994). Infatti, quando arriva il pupazzone finale siamo al contempo scossi e preparati. La maschera è ridicolamente fittizia. Oramai, però, sappiamo anche che Miike, alla seriosità di un revenge movie, deve opporre un contraltare destabilizzante.

La molteplicità di codici narrativi ed estetici

Arrivano i combattimenti finali. Sembra di assistere, contemporaneamente, a un film di Bruce Lee e ad una puntata dei Teletubbies. E non finisce qui. Il mostro finale è fatto di pezza, ma l’apocalisse attorno è digitale. Eccoci quindi ad un nuovo ribaltamento. Chiunque pensasse ad un rifiuto della cgi viene lasciato sgomento. Meravigliato, non deluso.

Qual è il senso di tutto ciò? A parte il divertimento? Come suggerisce la scheda tecnica, «la mancanza d’identità diviene essa stessa identità». Io direi piuttosto che la molteplicità di identità, create e deflagrate attraverso il montaggio, giustappone costantemente un nuovo significato a quello appena visto. Il risultato è un film eccezionale, che inserisce nuova fiction e nel contempo ne svela l’artificio. Per pochi, direte voi. Per tutti voi, dico io.

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