Perché amare la prima sequenza di Batman Returns
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Perché amare la prima sequenza di Batman Returns

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Qualche mese fa ci siamo divertiti ad analizzare la prima sequenza di Batman – Il cavaliere oscuro. Visto che abbiamo dedicato un intero articolo all’incipit più famoso di Nolan, ora tocca al maestro, Tim Burton.

Il secondo capitolo di Batman, per Burton, si apre con alcune straordinarie sequenze, per un totale di circa 2.50 minuti. Da qui si passa agli altrettanto belli titoli di testa, con il viaggio di baby-Pinguino nel fantastico mondo dei sottoservizi comunali. L’arte si sa, è bella soprattutto se si rinuncia a spiegarla. L’impulso di dire due paroline su questo inizio, però, è stato irrefrenabile.

Tim Burton e Orson Welles

Batman Returns (1992), come noto, si apre con la genesi del Pinguino. Il racconto comincia con la scena che descrive la proprietà dei facoltosi Cobblepot. Burton sceglie un carrello di 13 secondi che raggiunge il cancello della tenuta – chiuso – per poi oltrepassarlo e avvicinarsi al maniero di famiglia. La camera si sofferma su una finestra, dalla quale fuoriesce una luce che proietta, sul vetro, la sagoma del signor Cobblepot, in attesa della nascita di suo figlio.

Il movimento di macchina, nell’impostazione, è estremamente simile all’incipit di Quarto Potere (1941). Nel suo inarrivabile capolavoro, Orson Welles si avvicina al castello di Charles Foster Kane mostrando dapprima la cancellata e poi, con una serie di dissolvenze, l’intera proprietà. In entrambi i casi, la scelta punta a mostrare l’inaccessibilità del potere, la sua chiusura verso il mondo esterno e la sinistra minaccia che la ricchezza rappresenta per i comuni mortali.

A raffronto: L’incipit di Quarto potere (a sinistra) e di Batman Returns (a destra)

Tim Burton e Roman Polanski

La seconda inquadratura del film ci porta dentro casa Cobblepot. Burton ci mostra il capostipite in primo piano. In lontananza, nelle segrete stanze della magione, si ode un urlo straziante. Cobblepot si volta e al contempo una panoramica ci introduce nella stanza, ruotando mentre ai gemiti della donna si unisce il grido di un neonato. La panoramica si ferma a 90 gradi dall’angolazione originale. Un’alta porta, in fondo, si apre. La servitù si affretta ad entrare ed uscire, il carrello avanza e accompagna Cobblepot che entra nella stanza, uscendo dall’inquadratura. Da dentro la stanza da letto, anche il padre di famiglia grida. Secondo shot, per una durata di 28 secondi.

La terza inquadratura non è meno meravigliosa. Burton ripete la panoramica di prima, solo che stavolta, alla finestra, ci sono entrambi i membri della coppia. I due si voltano e l’inquadratura mostra, vicino al caminetto, una gabbia nera, al cui interno sta il povero neonato, che si dimena. Alla piccola prigione si avvicina un gatto bianco. Ancora una volta una lunga inquadratura: 11 secondi.

Ora si alterna una semi-soggettiva del neonato (6 secondi) in cui il bimbo accarezza il gatto con il ritorno all’inquadratura dall’esterno (4 secondi) in cui intuisce che il gatto, catturato, non fa una bella fine. I due Cobblepot, non molto impressionati dalla scena, vengono ripresi in piano medio frontale (8 secondi). Si guardano e trangugiano il Martini che hanno in mano: hanno già deciso cosa fare del nuovo arrivato.

Proseguendo l’analogia con Quarto potere, Burton sceglie degli interni dalle proporzioni eccessive, a rimarcare l’ego dei ricchi inquilini. Ma stavolta c’è un tocco in più. Il regista inserisce una palette di colori che somiglia molto a quella della scena post-parto di Rosemary’s baby (1968). Mettendo insieme colori morbidi come l’oro e il rosa e tinte violente come il rosso cardinale e il nero, entrambi i cineasti creano contrasti nauseanti. Il corto circuito fra natività e blasfemia è intenso, tanto più che entrambi gli autori attribuiscono il medesimo colore al ricovero del neonato.

A raffronto: i colori in Batman Returns (in basso) con quelli di Rosemary’s baby (in alto)

In conclusione

La maestria dei grandi autori si nota dalla capacità di attingere dal passato, mentre si crea qualcosa di originale. Burton riesce perfettamente in quest’operazione, condensando in un minuto di film due dei maggiori esponenti della settima arte. Anzi, “piegandoli” al proprio volere.

Prima dei titoli di testa, peraltro, Burton fa capire, se non fosse abbastanza chiaro, chi sono i veri mostri del suo film. I genitori del piccolo Oswald Cobblepot infatti se ne disfano gettandolo nel fiume. Il bimbo però sopravvive. Il razzismo, il classismo e il potere generano odio e desiderio di vendetta. Pinguino e Catwoman altro non sono che lo scarto di un mondo marcio: i due sono “amati” da Burton, in quanto freaks, incapaci di trovare una propria collocazione nel sistema. Chapeau, Tim.

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