Monografie: Duncan Jones, il sipario strappato delle illusioni
Per la rubrica dedicata alle monografie oggi diamo un rapido sguardo a Duncan Jones. Figlio di David Bowie, classe 1971, il regista inglese è riuscito a non patire la pesante eredità artistica del padre, seguendo la propria strada. Un percorso che non nasconde la propensione alla fantascienza, al fantasy, alla distopia, ma senza mai mettere in secondo piano i personaggi e il loro viaggio – spesso doloroso – alla scoperta del mondo e di sè stessi.
Il nostro Jones, pur avendo all’attivo appena quattro film, ha già ampiamente dato conto delle proprie capacità. Il suo stile mostra una grande attenzione nello sviluppo dei caratteri, all’interno di un’ambientazione mai banale, che però non distoglie l’attenzione del pubblico. Inganno e verità, felicità e dolore, ipocrisia e ribellione. Sono queste le linee tematiche di un autore che, anche nella sua opera meno riuscita, non smette mai di portare avanti il proprio confronto con lo spettatore.
Moon (2009)
Jones esordisce nel 2009 con Moon, un film diventato cult per via della rinnovata profondità con cui venne affrontato un racconto fantascientifico. L’opera racconta la storia di Sam Bell, astronauta di stanza sulla Luna, con l’incarico di monitorare l’approvvigionamento di fonti energetiche, divenute indispensabili per sostenere la vita sulla Terra. A seguito di un tremendo incidente, però, Sam scoprirà di non essere solo. Scoprirà, soprattutto, di non essere affatto ciò che pensava di essere.
Moon è il classico esordio con la “e” maiuscola. La svolta di trama farà conoscere al nostro Sam la sua vera natura e lo scopo reale per cui si trova lì. Il sipario si strappa e la realtà lo investe con tutta la sua crudeltà: Sam è stato raggirato, usato come un oggetto, e ora la sua vita interiore viene completamente sconvolta. Chi avrebbe dovuto garantirgli un lavoro e l’imminente ritorno a casa ha invece architettato una squallida messinscena per curare esclusivamente i propri interessi. Senza immaginare che dietro Sam Bell si cela una vita, una memoria, desideri, progetti, come quelli di ogni essere umano.
Source code (2011)
Il debutto di Jones ha un discreto successo, ma soprattutto ottiene il plauso della critica e della produzione, che con soli 5 milioni porta a casa un dramma avvolgente e melanconico. Come non se ne vedono più. Passano due anni, e a Duncan Jones viene dato un budget decisamente più robusto. Con 32 milioni di dollari, il regista tira fuori un buon prodotto su commissione, vale a dire Source Code.
La seconda prova di Jones porta lo spettatore in un territorio più thriller-action, ma non per questo meno brillante. Colter Stevens, capitano dell’aeronautica statunitense, si risveglia nel corpo di un uomo in treno, assieme a una donna che sembra conoscerlo. Una voce da remoto spiega al militare che è stato portato lì per scoprire il terrorista che ha fatto esplodere il convoglio diretto a Chicago. Ogni volta che il capitano non sarà riuscito nell’impresa, il treno esploderà, come è accaduto nella realtà, e lui verrà nuovamente catapultato indietro nel tempo per assolvere la sua funzione.
Azzeccando un cast di prim’ordine (Jake Gyllenhaal, Vera Farmiga, Michelle Monaghan), Jones torna dalle parti di Minority Report (Steven Spielberg, 2002) per raccontarci ancora una volta la storia di un uomo che viene usato contro la propria volontà, contro il tempo e ogni etica, per uno scopo “più grande”. Il cineasta inglese però si concentra sulla capacità della società e delle istituzioni di infliggere pene e sofferenza in nome di un bene maggiore. Con il suo finale un po’ ruffiano, Source Code non può che rientrare nella categoria di blockbuster. Ma magari tutti i blockbuster fossero così.
Warcraft – L’inizio (2016)
Source Code può considerarsi il primo vero successo commerciale di Jones: al botteghino, il film guadagna oltre 147 milioni di dollari. Con il successivo, però, si arriverà a quasi 440 milioni di incasso.
Nel 2016 infatti esce Warcraft – L’inizio. Altra opera su commissione, che vede la partecipazione della Blizzard nel mondo della settima arte. Jones, con i suoi orchi, maghi e guerrieri, può sbizzarrirsi con effetti speciali e CGI a non finire. Nel farlo, però, il regista non tradisce la sua vocazione al racconto di personaggi.
Il fantasy si apre con un esodo di orchi nel mondo degli odiati umani. L’ecosistema di queste creature, infatti, sta morendo, e quindi lo stregone Gul’dan le traghetta al di là di una “grande porta”. Questo salvifico potere, però, è dato da una tremenda magia, il Vil, che esige il sacrificio di vite in cambio delle sue straordinarie facoltà.
Checché se ne dica, Warcraft è uno dei migliori fantasy-epici usciti dopo Il Signore degli Anelli. E questo perché, oltre ai miracoli del computer, Jones mette in scena una storia avvincente, in cui il confronto fra avverse culture è dato dalla necessità di sopravvivenza. E alla fine il vero nemico, colui che manipola per continuare a tessere la propria trama, rivelerà il suo volto reale.
Mute (2018)
Concludiamo la rassegna di Duncan Jones con l’ultima opera a nostra disposizione, ovvero Mute. Prodotta da Netflix, la “pellicola” narra di Leo, barista muto per via di un pauroso trauma infantile. In una Germania futuristica, la società è composta da ricchi e da mafiosi, al di sotto dei quali si staglia un triste universo di subordinati. La storia di Leo inizia quando la sua fidanzata, la cameriera Naadirah, scompare.
C’è da dire che, se non fosse nota la regia, difficilmente si potrebbe attribuire questo film a Duncan Jones. Non tanto per i temi o lo stile. Probabilmente, la minore riconoscibilità è da attribuire alla produzione. Mute infatti vive di un universo distopico, pieno di particolari, di sottotrame, di personaggi che meriterebbero un approfondimento. E come se quest’opera fosse stata concepita e scritta per una serie, anziché per un film. Non sempre, infatti, la sceneggiatura riesce a chiarire alcuni passaggi, che ahinoi rimangono in sospeso, almeno ad una prima visione.
Pur non essendo completamente riuscito, però, Mute ha degli innegabili lati positivi. Innanzitutto la scenografia e la fotografia, che riprendono un contesto suburbano sporco e costretto in un fuoco incrociato di neon. I temi cari a Jones, poi, affiorano come schegge: la solitudine, la ricerca della verità, il disprezzo della vita umana, l’abbandono. E soprattutto l’emotività, che per Jones è il fuoco sacro di ogni essere. Ciò che lo rende autentico, ribelle. In una parola, vivo.
In conclusione
Nell’arco di 12 anni, Duncan Jones ha girato quattro film. Il regista cinquantenne si è posto all’attenzione di critica e pubblico per la sua capacità di dosare intrattenimento e riflessione, candore e violenza. Abbiamo voluto parlare di questo autore soprattutto perché ha saputo donare ad ogni sua opera il proprio “touch”.
Se in Moon si parla di finitudine della vita e abuso delle sue risorse, in Source Code questo abuso torna, ma stavolta ha per oggetto il tempo. Se in Warcraft un orco e un umano possono arrivare a capirsi, in Mute due esseri della stessa specie possono essere fra loro alieni. Il pensiero di Jones, intriso di ambientalismo e lotta di classe, riflette lo spirito del nostro tempo, così avido di facili soluzioni da preferire l’illusione alla realtà. Un tempo in cui ciò che abbiamo intorno non è considerato come essere vivente, ma come strumento nelle nostre mani. Come mezzo per raggiungere potere e benessere. Per essere fra i salvati, grazie ai sommersi.