Libero Stato #4 – Il signor Diavolo (2019)

Negli ultimi anni il cinema italiano ha conosciuto una rinascita delle produzioni di genere. Il signor Diavolo è un titolo che attesta questa seconda – o terza, o quarta… – giovinezza del thriller-horror italiano. E per fortuna che RaiPlay ce lo mette a disposizione gratuitamente.

Across the river (2013), The end? (2017), The nest (2019): sono solo alcuni dei titoli che hanno nobilitato lo scorso decennio di cinema nostrano. Film dal basso budget, a volte bassissimo, spesso imperfetti, ma quasi sempre desiderosi di dire qualcosa. Una caratteristica tipica degli esordienti, ma ogni tanto anche dei cosiddetti “vecchietti”.

E’ il caso di Pupi Avati. Il cineasta romagnolo, due anni fa, ha deciso di festeggiare la quinta decade di carriera dietro la macchina da presa con un gotico ambientato nell’Italia del secondo dopoguerra. E il risultato non è perfetto, ma le sue qualità ci fanno dimenticare i difettucci disseminati qua e là nella pellicola.

Il signor Diavolo ci racconta la storia di Furio, dipendente del Ministero di Grazia e Giustizia, al quale viene affidato un incarico molto delicato dai suoi superiori. Il funzionario deve recarsi a Venezia ed occuparsi dell’omicidio di un ragazzo, ucciso da un suo coetaneo convinto che l’altro fosse il diavolo, dietro suggerimento di una suora. Furio deve dimostrare che la suora non c’entra nulla, per evitare scandali elettorali che avrebbero ripercussioni negative sulla Democrazia Cristiana. Il partito, appunto, dei superiori di Furio.

Nel tentativo di sbrogliare il mistero, il protagonista si addentra in una comunità credente e superstiziosa. Soprattutto, nei luoghi in cui i ragazzi vengono educati secondo i dettami della cristianità. Giovani, poveri e perlopiù ignoranti: soggetti facilmente suggestionabili. Furio, al contempo, torna da invischiarsi nei segreti della propria infanzia.

Anche con qualche momento di cedimento, il cinema di Avati è fresco e inquietante. Il regista ci porta lontano dalle cornici wasp d’oltreoceano per ancorarci nelle lagune del nord, per impaludarci in un passato molto italiano. Un passato recente. L’affresco finale rivela un Paese torbido, impregnato di odio represso e colonizzato nell’immaginario. Nulla sembra essere cambiato dalla brutale ruralità di Non si sevizia un paperino (Lucio Fulci, 1971). Soprattutto perché i protagonisti di questa storia sono i nostri nonni. I nostri genitori.

Certo, in un film con il diavolo è impossibile non avvertire gli echi de L’esorcista. Ma in questo caso, meno di quanto si pensi. Protagonista indiscussa del racconto è piuttosto la cultura del nostro Paese, che ancora non ha fatto opera di riflessione su sé stessa. La nostra civiltà, quella costruita sulle ceneri di un’Italia distrutta. E che troppo spesso, e incautamente, si è considerata risorta.

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