Ingmar Bergman – L’arte di “lavorare” il tempo
Ingmar Bergman – L’arte di “lavorare” il tempo
Teso verso una concentrata perfezione stilistica che ruota intorno al polo estetico del realismo, costretto nelle tre unità di tempo, luogo e azione, il cineasta svedese Ingmar Bergman (1918, Uppsala – 2007, Fårö) crea un processo di astrazione del reale fenomenologico all’interno del suo cinema, affermandosi pienamente nell’utilizzo del primo piano e nella temporalità ad esso connessa.
Bergman dota tutti i suoi film di una dimensione spaziale oggettiva, ma che spesso tende ad un sostanziale “astrattismo realista” in cui lo stesso spazio contribuisce alla creazione di un senso d’isolamento ove la percezione soggettiva del tempo causa sofferenze e dubbi. I sentimenti di sofferenza e solitudine si riscontrano – e affermano – nei volti.
L’astrazione del volto del soggetto apre ad un livello ulteriore di alterità dell’essere: è come se il volto sia un tramite
con una dimensione “altra”, una ‹‹pars pro toto››, come la definirebbe il grande cineasta sovietico Ėjzenštejn. Il volto è dunque un collegamento con la coscienza del soggetto che viene alla luce.
Il primo piano, dunque, è il fondamento stilistico cui si basa la cinematografia bergmaniana. Si tratta del così definito da Gilles Deleuze ‹‹iper-primo piano››, ovvero una totale compressione dello spazio al fine di far emergere unicamente il volto e le sue sottese ‹‹microfisionomie››, così identificate dal poeta ungherese Béla Balázs.
Il tempo in Sussuri e grida, 1972
Il primo piano, per il Bergman degli anni Cinquanta, ha ancora un valore di enfatizzazione del sentimento: ricalca, sottolinea ed
esplicita. Ed è sempre il primo piano ad essere il tramite per la dimensione temporale. In Sussuri e grida (1972) la dimensione temporale viene frantumata e messa in crisi e non è chiaro il confine tra il mondo “reale” e quello creato dall’alterità del sogno e del ricordo.
È un tempo apparentemente e paradossalmente infinito, in quanto infiniti sono i sentimenti degli individui. Il tempo è l’anima del cinema bergmaniano, un cinema come possibilità di resa della “durata pura”; come flusso di tempo del quale si colgono i livelli qualitativi e sentimentali.
Un passo indietro: La prigione, 1949
La rappresentazione di un tempo infinito è il fulcro del cineasta svedese, come nel suo La prigione (1949) in cui il tempo diviene carne coinvolgendo tutto ciò che incontra, distruggendo e invecchiando inesorabilmente oggetti e soggetti. Quello stesso tempo da cui Dorothy Vallens (Isabella Rossellini) non poté sfuggire in Velluto blu (1986) del grande David Lynch.
Il tempo, in quanto carne, è anche dolore. Più che di creazione di un equilibrio, nel cinema di Bergman si potrebbe parlare di una “sospensione dello scorrere del dolore del tempo”, che cristallizzandosi in una dimensione istantanea, sottrae chi la vive al fluire cronologico e lo pone in una dimensione privilegiata e astratta destinata però a scomparire quasi immediatamente.
Tempo cristallizzato, tempo sospeso
Sospensione e cristallizzazione del tempo, dunque, sono i parametri che Bergman utilizza per rendere il tempo paradossalmente infinito. Ed è proprio in questo frangente di sospensione che il primo piano identifica le prima citate ‹‹microfisionomie›› del soggetto, ovvero tutti quei tratti – più o meno evidenti – che sono propedeutici alla comunicazione di un sentimento vivo.
Il soggetto, sospeso nel tempo, apre la sua coscienza in un ‹‹effetto-specchio›› in cui l’individuo stesso è specchiato dinanzi il suo volto, dinanzi la sua coscienza. Il cinema di Bergman è tutto questo: non solo rappresentazione di un tempo inesorabile e distruttivo, ma anche sospensione di quest’ultimo consentendo un’apertura graduale sulla coscienza e l’interiorità dell’individuo. Tutto questo mediante l’elemento cinematografico per eccellenza: il primo piano.
Quello stesso primo piano al centro del capolavoro bergmaniano Persona (1966).
Ingmar Bergman – L’arte di “lavorare” il tempo