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In memoria – La morte e la fanciulla di Roman Polanski

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La memoria, e ancor meglio la cultura della memoria, è il filo stretto e resistente che ci lega alla Shoah. Pochi sono i sopravvissuti di questa tragedia epocale, mentre tanti restano gli interrogativi su ciò che ha portato l’uomo a fare una cosa del genere ai propri simili.

La morte e la fanciulla (1994) è il modo che abbiamo scelto per ricordare questi interrogativi. Com’è potuto succedere? Perché? Che cosa provavano e cosa pensavano gli aguzzini? Siamo esseri appartenenti alla stessa specie? Questo stesso male è in noi? Può essere ripetuto da noi? Domande che sono come il fuoco: se non si sta attenti, si rischia di bruciarsi al contatto con esse.

Roman Polanski, pur mettendo in scena una storia che non ha un esplicito legame con l’Olocausto, torna con impressionante lucidità sulla scena del delitto. Di un delitto vissuto in prima persona: ricordiamo che il regista di Rosemary’s baby e Il pianista visse nel ghetto di Cracovia durante l’invasione nazista della Polonia e fu allontanato dai genitori, che vennero deportati nei campi di concentramento.

La storia de La morte e la fanciulla è delle più semplici. Paulina e Gerardo Escobar vivono nelle vicinanze di una scogliera, in Sud America. Lui è un brillante avvocato che cura l’inchiesta sui crimini perpetrati durante la dittatura che ha governato il suo paese per anni, prima che lo stato di diritto venisse ripristinato. Una notte, un uomo (Ben Kingsley) viene a bussare alla loro porta, dichiarando di avere l’auto in panne. I due lo accolgono, ma Paulina (Sigourney Weaver) riconosce l’uomo dalla voce: è il dottor Miranda. L’uomo che durante gli anni della protesta ebbe il compito di sequestrarla, torturarla e stuprarla. Paulina lo droga e lo lega, dando inizio ad un terribile interrogatorio per ottenere la verità, ma l’uomo nega…

La coproduzione europea-statunitense finanziò le riprese a pochi anni dalla caduta del regime di Augusto Pinochet in Cile. La morte e la fanciulla, in questo senso, non tenta nemmeno di nascondere i fatti storici a cui si riferisce. Ma c’è di più. L’opera non è solo una bruciante denuncia delle nefandezze commesse dalla dittatura di Pinochet. Polanski piuttosto si concentra sul male fisico e psicologico, che ha un violento ricorso nella figura di Paulina. Questa, da vittima si trasforma in carnefice. Contro il prigioniero viene liberata una furia cieca. Lo spettatore è lanciato a velocità esorbitante in un climax di terrore e quasi si augura che l’uomo confessi per sfuggire al suo destino.

La memoria, in La morte e la fanciulla, è un’arma affilata. Attraverso gli occhi di Sigourney Weaver siamo costretti a subire l’incubo di chi ha vissuto in prima persona la spirale di violenza cui le dittature danno vita. Un incubo dal quale si può sfuggire solo esprimendo un’incontrollabile sete di conoscenza. Che ben presto, però, diventa sete di sangue. Dall’altro lato, sul prigioniero riversiamo emozioni contrastanti. Vogliamo la sua salvezza, ma sappiamo che questa dovrà passare attraverso un’atroce ammissione di colpa.

Una casa, tre attori. Di questo si compone la scena del film. Con pochissimi elementi Polanski riesce a rendere un dramma mondiale. Il nazismo, l’Olocausto, l’Argentina, il Cile, i desaparecidos, ma anche il vortice di odio fra Israele e Palestina. La morte e la fanciulla percorre la storia del ‘900 in modo trasversale e non restituisce al pubblico né vincitori né vinti. Il finale, tra i più ambigui della settima arte, ci irride: il peso immane della memoria è rimasto intatto, e anzi è aumentato. E tutto ciò che resta è una controversa lezione: chi non ricorda il proprio passato è condannato a ripeterlo. Ma questo vale anche per chi non lo comprende.

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