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Black Cut: il secolo di Destino

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Destino, oppure Le tre luci. O meglio ancora, Der Müde Tod, ovvero La morte stanca. Anche la varietà dei titoli ci dice che dietro il settimo (!!!) film di Fritz Lang si cela un’identità tanto molteplice da non poter essere etichettata in un unico modo.

Lang, che nel 1920 aveva 30 anni, non era ancora l’enorme maestro del cinema mondiale. Il giovane viennese, non più suddito dell’Impero, era solo il cineasta al quale era stata negata la regia de Il gabinetto del dottor Caligari (Robert Wiene). Il manifesto del cinema espressionista. Non proprio robetta.

Insoddisfatto e tempestoso, come un vero romantico germanico, da Caligari Lang ebbe il tempo di rubare il comparto scenografia, composto da Hermann Warm, Roberto Herlth e Walter Rohrig. Il genio c’era, la casa di produzione pure (Decla). Era tempo di diventare il dottor Destino dell’anteguerra.

Il regista aveva con sé una sceneggiatura scritta a quattro mani con Thea Von Harbou. Esatto, quella che poi avrebbe scritto Metropolis e collaborato con artisti del calibro di Murnau e Dreyer. Si trattava di una favola romantica, con una cornice ad anello e tre episodi centrali. In un villaggio al di là del tempo e dello spazio (che ricorda l’Austria rurale del XIX secolo) la Morte (Bernhard Goetzke) sottrae la vita ad un giovane (William Janssen), fidanzato novello di una ragazza (Lil Dagover). Questa decide di interrogare il mietitore di anime, per chiedergli di restituirgli l’unica che conti per lei.

L’ingresso nella casa della Morte, inevitabile rimando fotografico alla nascita della vita umana

Che il destino si compia. La Morte acconsente a riportare in vita il giovane, a patto che la ragazza salvi una delle tre vite che gli farà incontrare. In altre epoche, in altri mondi…

Se a volte ci chiediamo dove sia nato il fantasy e l’horror, Destino può considerarsi una delle (tantissime) risposte valide. E così anche l’anno: il 1921, esattamente un secolo fa. Lang infatti decide di non seguire, ma di (ri)dettare i canoni del cinema espressionista, con una messa in scena dalla fantasia inarrivabile (su tutti, la meravigliosa casa della Morte, con una foresta di ceri a simboleggiare le vite). A colpire, ancora, è la fotografia, capace di plasmare il profilmico addensandovi simboli di alfa e omega.

Scenografia in stile Le mille e una notte

Le avventure della ragazza però non sono una scusa per esibire il proprio – smisurato – talento. Lang imprime alla vicenda un’aura melodrammatica che sfocia nel pessimismo più beffardo. L’essere umano è caritatevole solo finché non si toccano i suoi interessi. Solo amando la vita degli altri, anche a sprezzo del proprio desiderio, si può influenzare il destino. Ma il fato, per Lang, è qualcosa che l’uomo non può modificare, anche con le migliori intenzioni, e ciononostante continua a volerlo mutare. Anzi, l’intera esistenza dell’uomo è una lotta contro il destino, e la morte è “stanca” non solo di mietere vite, ma anche di vedere la sconfitta eternamente dipinta negli occhi delle sue vittime.

Il dado è tratto. A distanza di pochi mesi Lang dirigerà Il dottor Mabuse, e in meno di sette anni regalerà al mondo I nibelunghi (1924) e Metropolis (1927). Destino però rimarrà sempre il suo vero esordio da autore. La prima di tante pietre miliari, che attinge dall’immagine pittorica (Dürer, Rembrandt) per restituire all’arte nuova iconografia (la Morte-Goetzke sarà modello imprescindibile per Ingmar Bergman ne Il settimo sigillo). Regalando a noi, spettatori di un altro secolo, uno dei primi dark fantasy della storia del cinema.

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