Black Christmas – Un Natale rosso sangue.
Black Christmas – Un Natale rosso sangue.
Nel lontano 1974 un regista di nome Benjamin “Bob” Clark, nato a New Orleans ma attivo in Canada dal 1973 al 1983, realizzò un film horror sulle ragazze di una sorority assediate, da prima telefonicamente, poi fisicamente, da un maniaco omicida.
Il film è Black Christmas, in Italia noto anche con il sottotitolo Un Natale rosso sangue, pellicola a lungo dimenticata, forse a causa del ritmo più lento e l’assenza della stessa suspense che caratterizza gli altri slasher, ma dotato di un’atmosfera unica.
Situato nel buco di 18 anni che separa l’ Halloween di John Carpenter dallo Psycho di Hitchcock, questo film funge da anello di congiunzione fra lo stile delle due pellicole e da fautore di quanto caratterizzerà lo slasher: l’assedio del cattivo e le eroine coraggiose e mature. E voi siete abbastanza maturi per leggere questa recensione senza temerne gli SPOILER?
Un primo killer da slasher
La pellicola è molto particolare nel suo genere in quanto è parecchio contenuta, per nulla paragonabile agli exploitation che caratterizzavano il decennio, ma al contempo è sconvolgente nella sua perversione, e questo è in buona parte dovuto al suo antagonista.
Al contrario di molti altri film, l’identità dell’assassino di Black Christmas non è solo un mistero durante la vicenda, ma lo è anche dopo.
Salvo il nome Billy, con cui sembra indicare sé stesso, e altre informazioni allucinanti che ricaviamo dai suoi deliri, non sappiamo nulla dell’assassino, né da dove venga, né perché abbia scelto proprio le ragazze di quella casa,e, malgrado non indossi mai una maschera o altro come gli altri slasher-killer, non vediamo mai il suo vero volto, cosa che lo rende ancora più spaventoso.
Del resto già nella letteratura, specie con Lovecraft, i mostri sono dipinti come esseri indescrivibili e indefinibili, e tale appare Billy, soprattutto per via della sua voce, realizzata dal regista mischiando insieme cinque voci diverse e che infatti suona subito innaturale all’udito. Nel doppiaggio originale, durante la prima telefonata, una delle ragazze, Clare Harrison, arriva a chiedere «Could that really be just one person?».
Il massimo che riusciamo a scoprire del suo aspetto, grazie ai pochi squarci del volto che ci sono offerti, è che è un uomo bianco affetto da eterocromia.
Uno sguardo assassino
In effetti, la scena del primo piano dell’occhio dell’assassino durante il suo scontro con la protagonista, Jess Bradford (Olivia Hussey), sembra quasi voler dire che questo è il nostro mostro: un punto di vista che si accanisce sulle sue vittime.
Il film, infatti, continua e perfeziona l’uso del punto di vista dell’assassino usato negli anni ’60 dallo stesso Psycho: dal secondo minuto di film, il nostro punto di vista combacia con quello dell’assassino che penetra dentro la confraternita.
Già prima, il movimento di macchina che ci mostra Jess entrare nella casa si trasforma in uno sguardo voyeuristico, in quanto ci porta a spiare la ragazza mentre entra e la festa delle ragazze dalle finestre.
Le ragazze dello studentato sono assediate dal killer, ma anche da noi.
Il punto di vista dell’assassino è un punto di vista privilegiato: il suo voyeurismo combacia con quello dello spettatore e conferisce, di conseguenza, all’assassino un controllo e un potere assoluto sulla situazione. Solo lui può essere così, nessun altro, né la protagonista né la polizia hanno il suo stesso controllo o la sua stessa rapidità ed efficienza di esecuzione.
Da qui si svilupperà il concetto che il male, sia esso umano o non umano, è ubiquo, velocissimo e inarrestabile. Una manifestazione di onnipotenza che è anche un atto rivelatorio: lo sguardo ha perduto la sua illusoria purezza: è sporco e impuro, ed è lui stesso a partecipare al male. E noi con lui. Anche nel finale, quando tutto sembra risolto, l’inquadratura, da oggettiva, si trasforma con il movimento in un personaggio: appena se ne sono andati via tutti dalla scena, si sposta per la casa di propria iniziativa e sembra essere lei, con una sorta di forza invisibile, ad aprire la botola della soffitta per raggiungere Billy, quasi preferisse lui a tutti gli altri.
Un pessimo poliziotto
L’inefficacia della polizia nel film è il riflesso di come veniva percepita in Canada durante la Crisi d’Ottobre, quando il Fronte di Liberazione del Québec cominciò a usare la tattica del terrore. Vi era un clima di profonda diffidenza nei confronti delle autorità che avevano la possibilità di arrestare chiunque sulla base di un sospetto, ma non erano state in grado di fermare i terroristi. Questo sentimento di sfiducia si materializza nel sergente Nash, interpretato da Doug McGrath, il quale è quasi la linea comica del film.
Nash incarna l’incompetenza della polizia nella sua totalità. Non prende sul serio la scomparsa di Clare (prima vittima di Billy) e afferma che nella maggioranza dei casi le ragazze scomparse sono solo a letto con un ragazzo. Non prende neppure sul serio la denuncia di Jess contro il maniaco al telefono, ritenendo che si tratti di uno scherzo di qualche suo amico.
Un buon poliziotto
A Nash si contrappone il tenente Ken Fuller, interpratato da John Saxon.
Niente può descrivere meglio il loro rapporto del seguente dialogo:
“Non volevo seccarla per quella fesseria.”
“Fesseria, eh! (…) Una ragazza della scuola media è stata uccisa. La figlia del signor Harrison è scomparsa. E ora nella casa dove vive, le amiche di Clare, ricevono delle telefonate minacciose e oscene. Non credi che sarebbe bene indagare Nash?”
L’incompetenza del sergente è talmente evidente al suo superiore. Nel momento in cui gli comunica che hanno rintracciato l’origine della telefonata nella stessa casa delle ragazze, il primo pensiero del tenente è che Nash abbia fatto confusione.
Realizzata la verità, Fuller dà istruzioni precise e perentorie.
Ordina a Nash di telefonare a Jess e di dirle di uscire di casa, precisando di non lasciarsi assolutamente scappare che l’assassino è in casa.
Ma quando Jess protesta di dover andare di sopra ad avvertire le sue amiche, Nash non esita a dirle che è proprio da lì che vengono le telefonate.
E sul finale, pur essendogli stato detto di restare ad aspettare la scientifica, si allontana lasciando così da sola Jess con l’assassino.
Ma neppure Fuller è scevro di colpe. La sua convinzione che Peter, il findanzato di Jess interpretato da Keir Dullea, sia l’assassino lo trascina su una falsa pista.
Tale pista, lo convince che il caso sia risolto mentre invece Billy è semplicemente nella soffitta sopra le loro teste.
Un vecchio stereotipo
L’incapacità delle forze dell’ordine è quasi un leitmotiv nei film horror.
O non credono al protagonista, o lo accusano ingiustamente, o sono incapaci, inutili o addirittura ci sono loro dietro la maschera del mostro.
Nel caso di Black Christmas la ragione, come già detto, è il riflesso di una situazione storico-sociale. In altri film si tratta della propria interpretazione del mondo.
Ma a parte questo, non è forse assolutamente terrorizzante il pensiero che chi ci debba proteggere non sia in grado o addirittura non voglia farlo?
Laureata in Lettere e Antropologia, tutto il suo piano di studi si può tradurre in cinque semplici concetti: libri, fumetti, cinema, media, pizza. Cerca di farsi strada come scrittrice. Nel frattempo vi studia e osserva. Praticamente innocua.